Come finiscono le crisi? Vediamo i dati
Si potrebbero citare innumerevoli casi di società che collassano in maniera violenta. Eppure ci sono anche casi di collassi non violenti. Vediamo le casistiche in percentuale.
1. Non tutte le crisi finiscono bene, anzi
Nei post precedenti ho descritto singoli episodi di crisi risolte bene:
il conflitto degli ordini che segna l’inizio della repubblica romana
le riforme per l’abolizione della servitù in Russia, che placa gli animi per qualche decennio, innescando però conflitti sociali maggiori
la redistribuzione di ricchezza negli Stati Uniti del New Deal, che segna l’inizio del ciclo storico in cui è vissuto l’occidente dal 1945 ad oggi.
Eppure dovrebbe essere chiaro che le crisi risolte bene, ovvero quelle in cui popolo e élite si riallineano con un nuovo patto sociale e rimettono in piedi lo stato, sono solo una minoranza. Secondo le mie stime, fatte estraendo dal Chronos Dataset i periodi di crisi che hanno delle riforme, stiamo parlando circa dell’11.7% dei casi (su un totale di 991 esempi di crisi).
2. Come collassano le società, in percentuale
Si potrebbero citare innumerevoli casi di crisi che finiscono male e di società che collassano, in un modo o nell’altro. L'epidemia di vaiolo che colpì la confederazione degli indiani dell’Illinois nel 1750, la sconfitta nella battaglia di Ganter che pose fine al regno indonesiano di Kediri nel 1222 d.C., la ribellione degli Hyksos in Egitto intorno al 1720 a.C. e anche il Regno d’Italia, che è finito con una guerra civile tra il 1943 e il 1945. Se mi mettessi a elencare le crisi finite male non finirei più. Hoyer però elenca una casistica delle condizioni che portano da una crisi a un collasso (in un collasso ne può accadere anche più di una):
la guerra civile e le proteste violente represse nel sangue,
il classico colpo di stato con la deposizione del governo o del sovrano,
la conquista politica da parte di una società esterna,
la fuga o l’impoverimento dell’élite, come quelle accadute dopo la rivoluzione francese o il crollo dell’URSS, che determinano perdita di competenze e ricchezza
disastri non gestiti, come l’emigrazione o l’invecchiamento della popolazione, il crollo delle nascite o epidemie di massa che determinano il crollo della produttività e della ricchezza nel popolo,
la prolungata frammentazione politica, che determina scarsa coesione sociale e quindi scarsa produttività con spreco di risorse.
Ho preso i dati del Consequences of Crisis DB, che fa parte dei dataset rilasciato da Turchin nel progetto Seshat. Si tratta di un database di 170 crisi annotate con diverse conseguenze, come quelle che ho riportato. Ciascuna crisi può essere stata annotata con più di una conseguenza. Se facciamo un grafico a torta delle conseguenze principali otteniamo questo:
3. Riducendo la complessità a due opzioni..
La guerra civile sembra essere una conseguenza abbastanza frequente, ma non di così tanto superiore rispetto alla fuga/impoverimento dell’élite. Il colpo di stato e la conquista dall’esterno hanno la stessa probabilità e questo potrebbe suggerire che vanno insieme. Un altro scenario mediamente probabile è la frammentazione politica, tipica delle società in cui diversi gruppi non sono in grado di trovare un accordo per raggiungere un equilibrio sociale insieme. Altri scenari minori sono i disastri ingestiti e lo sterminio della popolazione, che di solito accade quando una élite dominante elimina una minoranza per avere la massima coesione sociale e il pieno controllo del governo.
Se dovessimo ridurre la complessità a due opzioni ce ne sarebbe una violenta (guerra civile, sterminio della popolazione, deposizione del sovrano e conquista dall’esterno) e una, diciamo così, passiva (impoverimento dell’élite, frammentazione sociale e disastri ingestiti). Sebbene a livello statistico la variante violenta sia la più probabile, l’età media della popolazione gioca un ruolo fondamentale. Meno giovani ci sono, meno è probabile che ci sia una guerra civile. Questa è certamente una caratteristica che l’Italia ha.
4. Importanti questioni filosofiche
Fare storia con i dati apre problemi filosofici e espone almeno a due tipi di critiche:
riduzionismo: i modelli statistici sono necessariamente semplificazioni di ciò che accade e i dati storici sono necessariamente incompleti. Il vissuto di chi si trova dentro la storia è emotivo mentre i modelli e le probabilità vedono solo i comportamenti collettivi.
determinismo: chi fa storia con dati e modelli presuppone il fatto che tra gli eventi ci siano nessi di causa-effetto, ma se tutto è causa-effetto dove sta il libero arbitrio?
interpretabilità: la storia la scrivono i vincitori e le culture creano un pregiudizio che finisce per falsare sia i dati che l’interpretazione degli eventi, ma anche le decisioni da prendere.
In realtà le obiezioni riduzioniste e deterministe non mi spaventano: la parte emotiva e le storie personali restano necessariamente fuori dai modelli, e poi non tutto potrebbe essere determinato da cause ed effetti (e infatti i modelli hanno un certo grado di errore). Credo invece che la questione dell’interpretabilità sia molto seria ed è per questo che l’ho gestita in maniera quantitativa.
Come? Ne parlerò dettagliatamente il prossimo lunedì.